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IL GRUPPO DI LAVORO

PAOLO VISTOLI, LUIGI TAGLIABUE (2020)

3/2020 

Il numero 3 del 2020 di Rivista Sperimentale di Freniatria, pubblicato da Franco Angeli Edizioni è disponibile sul sito www.francoangeli.it Gli articoli di Giuseppe Riefolo, antonino Aprea, Cristina Perletti, Jacopo Santambrogio, Anna Bassetti, Giovanni Battista Foresti, Elena Pini, Ilaria Riboldi, Giuseppe Cardamone, Michela Da Prato e Sergio Zorzetto compongono il fascicolo curato da Paolo Vistoli e Luigi Tagliabue.

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EDITORIALE La costituzione ed il “buon” funzionamento dei gruppi di lavoro hanno caratterizzato le esperienze psichiatriche nelle loro più innovative ed avanzate espressioni. Che si sia trattato delle pratiche di psicoterapia istituzionale (Paumelle, Racamier), di comunità terapeutiche (Maxwell Jones), di pratiche anti-istituzionali (Basaglia), sempre più è emersa la necessità di una dimensione collettiva dell’impresa terapeutica, pur nella consapevolezza della problematicità della sua gestione e dei rischi involutivi (Woodbury, Menzies). L’avvio delle pratiche territoriali nel nostro paese ha riconosciuto, almeno in molte realtà, la dimensione gruppale dell’intervento come elemento centrale nei processi terapeutici. Si è affermata la concezione del gruppo come luogo ove, al di là delle diverse professionalità, ruoli e indirizzi formativi personali, si potesse facilitare una cultura psichiatrica di base in grado di accogliere e valorizzare la soggettività di tutti i membri. Una cultura di gruppo in grado di costruire un linguaggio comune, di utilizzare le differenze come risorse per un sapere condiviso: in altri termini è maturata la consapevolezza che, al di là della funzione del singolo operatore, sia fondamentale il gruppo di lavoro, in grado di sostenere la relazione con le diverse e complesse forme di sofferenza, spesso caratterizzate dalla mancanza di una esplicita domanda di aiuto, da una apparente aridità affettiva, dalla negazione della realtà, da dinamiche scissionali e distruttive. Al di là, quindi, dei suoi aspetti organizzativi, politico-istituzionali, il gruppo di lavoro si è posto come terreno di ricerca del senso della sofferenza dell’altro, non richiudendolo in predefinite categorizzazioni e accettando di misurarsi con la sua peculiare e problematica dimensione esistenziale. Detto del valore della dimensione gruppale del nostro lavoro, ci preme qui analizzare i significativi cambiamenti fra la fase che potremmo definire pionieristica (statu nascenti) post-Ospedale Psichiatrico e quella attuale. Se ieri il rischio era in fondo quello di una sorta di auto-referenzialità, oggi il rischio è quello di una sorta di dispersione: l’operatore permane membro del gruppo identitario della sua quotidianità, purtuttavia misurandosi con una crescente complessità della domanda difficilmente riducibile entro i confini del gruppo di appartenenza, partecipa incessantemente ad altri gruppi, motivato da scelte strategiche condivise, diventando concretamente partecipe di altri gruppi di uno stesso Servizio, del più esteso Dipartimento, della rete dei Servizi Sanitari (medici di base, ospedale), della rete dei Servizi Sociali, ecc.; gli si chiede in altri termini di sentirsi parte di un sistema sociale e sanitario che si interroga ed opera per lo sviluppo della salute mentale in una determinata comunità locale. Si tratta cioè di passare dalla logica del piccolo gruppo che vive in un illusorio regime di autonomia, con effettivi rischi di isolamento ed autoreferenzialità, a quella della pluralità di gruppi che in modo dinamico si strutturano attorno a progetti ed obiettivi che richiedono competenze diverse ed integrazione di sforzi; partendo certamente dall’équipe di cui si fa parte, ma per proiettarsi ad operare nei gruppi con i pazienti, con i familiari e con altri operatori di altri Servizi, all’interno del contesto Aziendale, ma anche con rappresentanti di altre istituzioni pubbliche o di Associazioni. A tale proposito va rimarcato come in molti Servizi, nella definizione dei problemi dell’attuale operatore, c'è anche il maggior peso che ha oggi la documentazione informatica, la registrazione delle prestazioni, gli scambi di informazioni online e la conseguente quantità di tempo spesa davanti allo schermo di un computer per tenersi in rete con gli altri operatori istituzionali, etc. Si sta passando da interazioni (del recente passato) quasi tutte vis a vis a molte interazioni virtuali. Non solo. Molti servizi di salute mentale hanno al loro interno, oltre ai tradizionali gruppi di lavoro, gruppi di co-progettazione di appartamenti supportati e di co-housing, relazioni strutturate con gruppi di utenti esperti, con gruppi di mutuo-aiuto, con gruppi di uditori di voci, con associazioni di familiari, con agenzie che curano inserimenti eterofamiliari di pazienti (IESA) e con consolidate esperienze di reparti psichiatrici aperti e senza contenzione, interlocutori tutti ai quali viene doverosamente riconosciuta pari dignità sul piano dell’ascolto e della costruzione degli interventi. Si tratta in fondo di una complessità auspicata, contrapposta ad una complessità artefatta (documentazione informatica, livelli dirigenziali non chiari, autorizzazioni sempre più diffuse, Medicina difensiva) la cui necessità non appare sempre così evidente. L’appartenenza è quindi in qualche modo appartenenza ad ambiti diversi e più allargati, con il conseguente compito di cogliere la specifica declinazione di ruoli e funzioni che un determinato contesto impone, ricercando una feconda dialettica fra il particolare ed il generale, fra l’individuale e il gruppale, fra la dimensione Istituzionale e quella Sociale. È evidente che l’aumento della complessità relazionale che tale setting di lavoro comporta ed il concreto rischio di incoerenza, confusione e conflittualità impongano, oltre che momenti specificamente formalizzati di formazione, una modalità costante di riflessione, affidata agli stessi gruppi di lavoro, debitamente “aiutati” sia da figure interne che da esterni. Perché tutto ciò avvenga occorre che vengano riconosciuti luoghi e tempi adeguati, indispensabili per fare i conti con il carattere di incertezza connaturato all’ambito operativo della salute mentale, “protetti” dalla celerità dei processi decisionali richiesti dalle situazioni e dalle dinamiche aziendali. La condivisa necessità di salvaguardare un tempo adeguato per la riflessione ed il confronto fra gli operatori della salute mentale impone, tuttavia, un adattamento dei modi di funzionamento del gruppo di lavoro e della sua organizzazione ai nuovi e molteplici scopi da perseguire. Di seguito daremo un breve riassunto degli articoli proposti in questo numero della Rivista Sperimentale di Freniatria dedicato al tema che abbiamo tratteggiato nelle righe precedenti. Ognuno degli autori coinvolti, partendo dalla loro specifica esperienza, ha sviluppato aspetti particolari in grado tuttavia di fornire, nel loro insieme, il molteplice e la stratificazione di tutto il tema affrontato. Giuseppe Riefolo nel suo contributo ricontestualizza il gruppo che opera in Salute Mentale nei suoi contenitori limitanti sociali, culturali e contrattuali. Attraverso la disamina di un frammento clinico l’Autore sottolinea le ricadute problematiche dell’attuale maggiore responsabilità soggettiva degli operatori nella conduzione integrata e dialettica delle situazioni di cura. Giacomo Di Marco, attraverso un’analisi storica di 50 anni di psichiatria di comunità, riflette sulla nascita, strutturazione e rischio di preoccupante diniego (psichiatria sine psichiatria) della clinica istituzionale, ovvero di quell’originale e concreto sapere psicoterapico formatosi clandestinamente nel lavoro delle nostre organizzazioni di cura nei Servizi di psichiatria. Antonino Aprea, nel suo articolo, fa un bilancio critico sulla formazione nelle scuole di psicoterapia. Ci informa dell’alto rischio di riduzionismo che incombe sulla formazione e sul fare psicoterapia, se nel bagaglio culturale dei futuri curanti viene a mancare un solido sapere antropologico, sociologico e un’analisi attenta delle trasformazioni sociali e politiche del contesto in cui si deve lavorare. Luigi Basso, anche grazie al suo specifico osservatorio, si occupa dei modelli organizzativi e culturali che informano il lavoro nelle residenze riabilitative psichiatriche. Il lavoro sul confine, l’altrove, il college sono alcune bussole metaforiche che orientano questo contributo. Cristina Perletti, Jacopo Santambrogio, Anna Bassetti, nel loro intervento, illustrano alcuni bozzetti clinici, tratti dall’attività clinica della Comunità terapeutica per adolescenti L’Aliante, di Milano, sorta nel 2016. Nelle riflessioni che ne derivano, concentrate sia sul concreto che sul simbolico, sottolineano l’importanza di un continuo lavoro di elaborazione e trasformazione dei comportamenti osservati, che si deve realizzare in connessione con gruppi concentrici (Comunità, famiglia e rete sociale). Giovanni Battista Foresti, Elena Pini, Ilaria Riboldi illustrano, nel loro scritto, la consulenza svolta presso una unità operativa di un Dipartimento di Salute Mentale lombardo, dopo una crisi, al contempo, singola e gruppale determinatasi per un episodio di violenza fisica esercitata da un utente ai danni di un operatore. Attraverso la creazione di un GRADIOR (Gruppo di Ascolto Dinamiche Organizzative) si riesce ad osservare con maggior dettaglio il funzionamento mentale di questa istituzione psichiatrica. Giuseppe Cardamone, Michela Da Prato e Sergio Zorzetto riflettono sul lavoro nei Servizi di Salute Mentale nel presente scenario di “mutazione sociale duratura” innescato dall’emergenza virale. Gli Autori valutano gli effetti di questa forte perturbazione e propongono, per non esserne travolti, un rilancio delle più peculiari strategie di lavoro in gruppo multiprofessionale e interdisciplinare della Salute Mentale, integrate da costrutti etnopsichiatrici. Paolo Vistoli, Luigi Tagliabue